“Questo futuro era comunque il mio; io amavo la vita e non riuscivo a rassegnarmi al fatto che l’indomani dovesse esserci solo un unico lamento senza speranza”.
Parigi, 1908: nasce una donna, saggista, filosofa ed esistenzialista (grazie all’incontro con Sartre, col quale intrattenne una relazione aperta!) che ebbe il coraggio in primis di lottare contro la propria famiglia, e poi di scrivere importanti opere su temi, all’epoca scottanti e ritenuti tabù, quali l’aborto, la contraccezione, i diritti delle donne, la prostituzione. Colei che con la sua più famosa opera, pubblicata nel 1949, segnò la definitiva rottura con la prima ondata femminista; affermando che il suffragio universale non era sufficiente per la parità di genere. Era bensì necessari una nuova rilettura del movimento femminista sta per dare alle donne la perduta dignità, attraverso due processi:
1) la piena consapevolezza di sé;
2) far parte di un movimento, costituito da ambo i sessi.
Di chi stiamo parlando?
Di Simone de Beauvoir, che ancora ragazzina si ritrovò ad affrontare le catastrofiche conseguenze della Seconda guerra mondiale che affliggevano la Francia, e il padre, convinto oppositore dell’emancipazione delle donne. Nonostante ciò, sin dalla prima giovinezza, Simone rivelò una grande caparbietà e determinazione (oltre che una notevole intelligenza e capacità critica di analizzare il mondo intorno a sé), che la portarono dapprima alla laurea in filosofia, poi all’insegnamento ed infine alla stesura di fondamentali opere, anche per l’attualità, (addirittura censurate all’epoca), che culmina con la pubblicazione dell’intramontabile libro “Il secondo sesso”.
“Penso che il femminismo sia una causa comune per l’uomo e per la donna, e che gli uomini riusciranno a vivere in un mondo più equo, meglio organizzato, un mondo più valido, soltanto quando le donne avranno uno status più equo e valido attraverso la conquista dell’uguaglianza, che li riguarda entrambi”.
Ed ecco che allora, la nostra filosofa del femminismo, iniziò proprio con la discussione intorno a Freud, considerato colui che definì “l’uomo come individuo e la donna come femmina”, facendo così diventare la donna “l’altro sesso”: l’uomo è il soggetto, l’elemento assoluto, mentre la donna è l’altro.
Proprio per il suo approccio filosofico esistenzialista alla vita e al mondo, Simone, scrisse il suo saggio partendo dalla propria esperienza personale, in secondo luogo affermò che ogni individuo può scegliere due strade: quella dell’immanenza (cioè della rassegnazione alla vita, della passività) e quella della trascendenza (ossia la volontà di cambiare ciò che ci circonda, partendo dalla profonda conoscenza di sé e della società). Le donne devono capire di essere soggetto, e non mero oggetto: come direbbe Hegel, un’individualità in sé e per sé. Dopotutto…
“Donne non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna”
Perché leggere ancora oggi questo libro?
Forse perché la tanto sbandierata “parità di diritti”, non è poi così vera come vogliono farci credere (soprattutto in certe Nazioni).
Basti pensare alla scottante questione delle “madri surrogate” o “utero in affitto”, che proprio in questi giorni sta accendendo focosi dibattiti fra l’opinione pubblica in Italia (in vista anche della volontà di emanare una legge, che neghi la possibilità di accedere a questa pratica, proposta dall’ On. in carica alla Commissione delle pari opportunità, L. Sergiacomi).
Io ritengo che questa pratica, moderna e allo stesso tempo antichissima (per il concetto che porta con sé), vada a ledere due soggetti: la donna e il bambino. Innanzitutto le madri surrogata vanno spesso incontro a malattie e spesso alla morte, e con questo “lavoro” vengono trattate come meri corpi da sfruttare, senza tener conto della loro persona in toto (addirittura, in alcuni Stati, viene loro proibito di porre le proprie mani sul ventre, per evitare che si affezionino al futuro nascituro); in secondo luogo, il bambino diventa semplicemente un pacco, un oggetto da acquistare, per compiacere all’amore egoistico di una coppia (potremmo pensare a quanto sosteneva Schopenhauer: uomo e donna si uniscono solo per la volontà di riprodursi e portar avanti la propria specie. Per l’appunto una forma egoistica d’amore, ben lontano dall’amore disinteressato – agàpe – che dovrebbe essere alla base di qualsiasi tipo di relazione umana, in particolare quella nei confronti di un figlio.
Perché, dunque, non fare veramente un atto d’amore verso il prossimo e adottare bambini, che vivono in orfanotrofi, in Paesi sottosviluppati o in famiglie tossiche?
Forse perché il percorso da intraprendere per l’adozione implica tempi lunghi e logoranti, incontri con terapeuti e medici? Certamente è più facile pagare ed ottenere ciò che si desidera nell’immediato e con assoluta certezza a tutti i costi. Dopotutto è così che funziona di questi tempi, no? Tutto e subito!
Vorrei inoltre sottolineare la forte contraddizione a cui vanno incontro, coloro i quali fino a ieri hanno aspramente battagliato in favore dell’aborto (in nome della protezione della donna) e ora sono favorevoli allo sfruttamento becero del corpo femminile.
Dov’è rimasta la coerenza? Si cavalca forse l’onda del momento, come banderuole mosse dal vento?
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