Il Santo e il femminile, ovvero come sfuggire all’Inferno (dantesco e non).
L’ultimo punto di convergenza che vorrei proporre, nel rapporto tra Dante e Lacan nato a partire dalle riflessioni sul Desiderio, si trova nel registro Simbolico. Esistono infatti due figure etiche che vorrei affrontare: il Santo e la Donna, una che sfugge al peccato, e quindi all’Inferno e alla condanna eterna, mentre l’altra in quanto “castrata” in un certo senso apre ad un godimento potenzialmente asintomatico. Ci tengo a ricordare che maschile e femminile sono metafore di due modi di essere, così come sono le diciture “padrone”, “isterica” ecc., e che quindi non sono legate in senso stretto alle identità di genere.
Il godimento femminile, come posto da Lacan, è un godimento “infinito”. Non si tratta di un infinito matematico, ma di un infinito qualitativo, che indica un godimento che non si può quantificare, né ridurre a una formula. Questo perché non ruota attorno ad un oggetto particolare, il Fallo, bensì è aperta al suo esser “tutta”, alla sua dimensione di totalità che sfugge, come detto, al Simbolico. Per Lacan esiste “donna”, non “la donna”.
L’infinito femminile è infatti una sfida all’ordine simbolico, mostrando i suoi limiti e le sue contraddizioni. È un godimento che ci ricorda che c’è sempre qualcosa che sfugge alla razionalizzazione, al controllo.
È un richiamo al lato “anarchico” dell’etica umana, in quanto sfugge al dominio della Legge. Questo senso di pienezza e di completezza, tuttavia, ha più di un lato oscuro: quello del godimento utopistico e frustrato (o isterico), quello antropogenetico della responsabilità.
Non cedere al proprio godimento e assumersene la responsabilità è renderlo “femminile”, non farlo inciampare sulle ripetizioni della lotta fallica per il riconoscimento. È questa dimensione della responsabilità, del rilancio del processo di soggettivazione che dovrebbe portare il Soggetto, quando ne è consapevole, ad un “saperci fare”, ad un’etica a-fallica.
Il Santo rinuncia al mondo terreno, alla sessualità, in una sorta di “castrazione mistica” che lo avvicina al divino. La Donna, il suo contraltare, è spesso associata soprattutto nella tradizione religiosa a figure di madri, vergini, martiri, che incarnano valori di purezza, sacrificio e devozione. Queste figure femminili possono essere lette come una sorta di “sante laiche”, che incarnano ideali di femminilità e spiritualità.
Sia la Donna che il Santo inoltre sono spesso rappresentati come oggetti di desiderio, figure che suscitano un’attrazione intensa e ambivalente. Questo desiderio può essere visto come una proiezione di pulsioni inconsce, di desideri irrealizzabili.
Diventano oggetti (a), occupando tuttavia una posizione opposta: il Santo è esemplarità che si fa “scarto”, come lo è del resto l’analista, poiché è spesso visto come un eccentrico, un marginale, come l’analista è colui che ascolta le sofferenze degli altri, senza giudicare (chi è senza peccato scagli la prima pietra). Il Santo è animato dalla passione per Dio, la Donna invece ne diventa la manifestazione archetipica. L’analista, attraverso la sua neutralità e la sua capacità di ascolto, diventa un oggetto di investimento libidico per il paziente, mentre la Donna, nella cultura patriarcale, è spesso (purtroppo) idealizzata come oggetto del desiderio maschile.
Entrambe le figure che vi propongo quindi fungono da paradigma etico, basato sulla scelta e sulla responsabilità personale, sulla falsa riga del rapporto tra Kant e Sade. Un rapporto eros-polemos, in un certo senso, un rapporto che non deve essere un aut-aut ma uno spunto di riflessione: quello che conta, come detto, è il “saperci fare”, conta l’assunzione di responsabilità. Quello che conta è che, a prescindere dal paradigma simbolico di riferimento a cui tendere, non si rinunci alla propria soggettività ed al proprio processo di soggettivazione. Per dirla con Kant e parafrasando Lacan, concludendo, a non cedere “sul proprio stato di minorità”.
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