La società della stanchezza – Byung-Chul Han

“L’eccessivo aumento delle prestazioni porta all’infarto dell’anima”

Siamo perennemente stanchi.

Questa condizione di costante stanchezza, spesse volte nasconde delle problematiche specifiche, come ad esempio ansia, stress, depressione, burnout.

Ci siamo mai chiesti il perché?

Attraverso questo articolo, che ha l’obiettivo precipuo di analizzare (o almeno provarci) il saggio “la società della stanchezza” del filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, proveremo a capirlo o, almeno, ad avere un punto di vista differente.

L’analisi di Han parte innanzitutto dalla presa coscienza che nel XXI secolo non esiste più quella che Foucault definiva società disciplinare, “fatta di ospedali, manicomi, prigioni, caserme e fabbriche” (pag.23), ma si è passati, invece, ad una società radicalmente diversa, composta da fitness center, grattacieli di uffici, banche, centri commerciali. Questa società la possiamo chiamare “società della prestazione”.

Una delle principali differenze delle due tipologie di società (disciplinare e della prestazione) è la negatività/positività.

Infatti, mentre la caratteristica principale della società disciplinare è la negatività, il divieto o, ancora, il “non-potere” e il dovere, e si è dunque in presenza di una società basata sul paradigma “capo-sottoposto”, nella società della prestazione viene invece abolita la negatività e vi è una forte presenza della positività caratterizzata dall’affermazione divenuta nota con l’ex presidente statunitense Barak Obama “Yes we can”.

Ogni uomo è il prodotto della società in cui vive e, dunque, ne deriva che la forte negatività della società disciplinare produceva pazzi e criminali, mentre la società della prestazione genera depressi e frustrati.

Perché la società della prestazione genera depressi e frustrati

In estrema sintesi, depressione e frustrazione non sono altro che il risultato di un “inconscio sociale” che mira alla massimizzazione della produzione.

Come scritto in precedenza l’uomo è, in buona parte, il prodotto della società in cui vive ed è proprio all’interno della “sua” società che va ricercata l’origine di tale inconscio sociale.

La società del XXI secolo è una società fortemente capitalista, una società in cui ogni tipo di valore è stato spazzato via dall’unico vero valore realmente importante per una società di questo tipo: il denaro (e il profitto).

Risulta facilmente intuibile che all’interno di questo tipo di società non c’è spazio per il soggetto d’obbedienza tipico della società disciplinare, perché “a partire da un determinato livello di produttività, la negatività del divieto (e quindi del soggetto d’obbedienza, ndr) finisce per bloccare e inibire un ulteriore incremento”. (pag.25)

È dunque necessario un cambio di paradigma che modifichi il soggetto d’obbedienza in soggetto di prestazione.

E questo cambio di paradigma ha portato all’attuale soggetto di prestazione, ovvero quell’uomo che sfrutta sé stesso del tutto volontariamente, senza costrizioni, fino a diventare al tempo stesso vittima e carnefice.

Questo autosfruttamento è un processo che cresce fino al momento in cui il soggetto di prestazione non è più in grado di poter-fare, e questo va in contrasto con i messaggi lanciati dalla società capitalista, la società del “se vuoi puoi” o del “qualsiasi cosa la tua mente può immaginare, la può realizzare”, insomma, la società della crescita personale, delle frasi e riti motivazionali.

Il risultato è che il soggetto di prestazione si trova in guerra con se stesso, perché da un lato prova a raggiungere ciò che la società gli “suggerisce”, ma dall’altro non riesce a raggiungerlo, perché gli è impossibile poter incrementare ulteriormente le prestazioni.

Come sostiene Han, dunque, questa situazione genera una libertà paradossale che, in virtù delle strutture costrittive a essa connaturate, si rovescia in violenza. “Le malattie psichiche della società della prestazione sono appunto le manifestazioni patologiche di questa libertà paradossale”. (pag.29)

Hyperattention, un ulteriore problema causato dalla società della prestazione

Il filosofo sudcoreano all’interno del suo saggio analizza un ulteriore aspetto causato dalla società della prestazione, in grado di generare frustrazione, depressione, burnout.

Questo aspetto è rappresentato dall’iperattenzione, o hyperattention.

Nella società del XXI secolo, quella capitalista o della prestazione, non c’è spazio per il dolce fare nulla, per il relax, per il recupero; più ci mostriamo oberati, pieni di cose da fare, senza tempo libero e più veniamo “valorizzati”, come se lavorare senza tregua attribuisse all’uomo un maggior valore come persona.

Spesso ci si vanta, anche, di lavorare costantemente in modalità multitasking, come se questa costituisse un progresso civilizzante.

Ben lungi dal costituire un progresso civilizzante, il multitasking rappresenta, invece, un regresso (infatti il multitasking si trova, da sempre, largamente diffuso tra gli animali in natura ed è un elemento necessario per la sopravvivenza).

Questa smania di essere multitasking, inoltre, genera iperattenzione e iperattività.

Con riferimento all’iperattenzione, vi è da dire che questa va a discapito di un’altra attenzione, ovvero l’attenzione profonda, quella contemplativa che è quell’unica attenzione generatrice delle attività culturali dell’umanità.

Strettamente collegata all’iperattenzione c’è l’iperattività.

Anche l’iperattività come il multitasking non rappresenta di certo una caratteristica positiva come invece la società della prestazione vuole far credere.

Della stessa idea era Nietzsche, per il quale l’iperattivo era ripugnante. “L’”animo forte” conserva infatti la “calma”, “si muove lentamente” e prova “disgusto per ciò che è troppo vivo”. In Così parlò Zarathustra, Nietzsche scrive: “Oh, voi tutti cui è gradito il lavoro selvaggio e tutto ciò che è fervido e nuovo e strano, voi mal adoperate: la vostra assiduità non è che una fuga, una volontà di dimenticare voi stessi. Se aveste maggior fede nella vita, vi prostituireste assai meno. Ma per attendere – anche in ozio! – vi manca il punto di appoggio interno”.

Se ne deduce, dunque, che il superuomo nietzscheano non è altro che l’uomo della calma, opposto dunque all’uomo iperattivo della società della prestazione.

Raggiungere di nuovo la divinità

Il lavoro, oggi, ha totalizzato completamente le nostre vite.

Tutto il tempo è tempo di lavoro, le colazioni sono diventate colazioni di lavoro e, anche le pause, sono divenute schiave del lavoro, perché servono esclusivamente a “ristorarci dal lavoro, a permetterci di continuare a funzionare”. (pag.107)

Questo circolo vizioso deve essere spezzato.

Bisogna partire dalla consapevolezza che non è affatto facile, perché siamo totalmente assorbiti da questo tipo di società; ne siamo schiavi e dipendenti.

Dopo aver preso atto di questa situazione, gradualmente, dovremmo tornare ad annoiarci, perché solo annoiandoci, potremo tornare di nuovo a meravigliarci.

E così, forse, torneremo ad essere più umani e meno macchine (difettose) produttrici di performance.

Come sostiene Byung-Chul Han, ovunque si lavora e si produce non siamo insieme alle divinità.

“Gli dèi non producono, né lavorano. Forse dovremmo di nuovo raggiungere quella divinità, quella festività sacrale, invece di restare servi del lavoro e della prestazione. Dovremmo riconoscere che, oggi, avendo assolutizzato il lavoro, la prestazione e la produzione, abbiamo perso ogni momento di festa, ogni tempo solenne. Il tempo di lavoro, che oggi diventa totale, distrugge quel tempo solenne come tempo della festa”. (pag.106)

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