Gilles Deleuze (1925-1995) nel suo saggio Spinoza et le problème de l’expression (1968, tr. it. Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata, 1999) dedica un importante capitolo agli attributi e nomi divini. Il tema sembra lontano da una sensibilità contemporanea ma, in realtà, si incrocia con il tema del rapporto tra l’esistenza di un molteplice, di cui noi siamo parte come singoli numeri di una moltitudine infinita, e l’esistenza di un uno che ci comprende tutti senza elidere l’individualità di ciascuno. Le differenze tra i nomi divini sono reali oppure sono fittizie? Rispondere a questa domanda significa rispondere alla domanda se vi sono differenze reali nell’unico universo in cui esistiamo o se noi siamo solo espressioni transitorie di un’unica sostanza infinita. Il problema già esiste in Dio perché anche in lui vi sono una molteplicità di attributi in un’unica essenza. E questi nomi in che senso posso attribuirli anche alle cose? Deleuze si chiede: “Ma cosa fare se i nomi divini, applicati a Dio e implicati nelle creature, hanno lo stesso significato?” (cit., p. 46). Per rispondere Deleuze richiama il pensiero del medievale Giovanni Duns Scoto (1265-1308) che afferma l’univocità dell’Ente: l’ente si dice con lo stesso significato di tutto ciò che è, finito e infinito, anche se non nella stessa “modalità”. Questa diversa modalità introduce quella che Duns Scoto chiama la distinzione formale che concerne l’apprensione di quidditates distinte appartenenti al medesimo soggetto. Si tratta di una distinzione reale ma non numerica, perché riguarda attributi formalmente distinti, ma ontologicamente presenti nello stesso soggetto. Spinoza è erede di questa tradizione di pensiero scotista. Tutti gli attributi formalmente distinti sono rapportati dall’intelletto ad una sostanza ontologicamente una. Ma l’intelletto non fa altro che riprodurre oggettivamente la natura delle forme che apprende. Gli attributi (quindi, ad esempio, la bontà, la giustizia, etc. di Dio) sono quindi, al contempo, identici nell’essere e distinti nella formalità. Scrive Deleuze: “La distinzione formale fornisce un concetto assolutamente coerente all’unità della sostanza e della pluralità degli attributi, e conferisce una logica del tutto nuova alla distinzione reale” (cit., p. 49) In questo Spinoza è anticartesiano, perché per Cartesio è difficile concepire una distinzione reale fra cose che non si trovano in soggetti diversi, per cui la sua distinzione reale non può non essere anche numerica. In Spinoza l’esigenza dell’univocità della sostanza è imprescindibile senza che per questo vengano ridotte ad apparenza le distinte modalità con cui essa si pone in altro. Questo è possibile perché Spinoza non ammette un Dio creatore quale causa efficiente delle creature. Per lui l’essenza dell’unica sostanza contiene le essenze dei modi. L’idea di causa immanente dà seguito quindi all’univocità, liberandola dall’indifferenza e dalla neutralità alle quali la costringeva la teoria della creazione divina. L’univocità trova nell’immanenza la formula propriamente spinoziana: Dio si dice causa di tutto nello stesso senso (eu sensu) in cui si dice causa di sé. Questo pensiero lo troveremo poi in alcuni versi di Johan Wolfgang Goethe (1749-1832) in un suo componimento poetico denominato Epirrema (Cf. Goethe, J.W., Cento poesie, Torino, Einaudi, 1999, p. 245): Dovete, nell’osservare la Natura, /tenere d’occhio l’uno come il tutto;/ niente è dentro e niente è fuori:/poiché ciò che è dentro è fuori. / Dunque, afferrate senza indugio/il divino, palese mistero.
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