L’insieme di credenze implicate nella convinzione che la vita prosegua dopo la morte, con la promessa dei culti dionisiaci di un incontro con la divinità, con l’idea che l’anima sia separata dal corpo perché irriducibile ad esso, e che il legame con il corpo sia provvisorio, e della provenienza dell’anima dalla divinità, viene racchiuso da Erik Dodds in quello che lo studioso chiama “conglomerato ereditario”[1]. Questo conglomerato a sfondo religioso-sciamanico sarà ripreso da Platone insieme con la figura di Zalmoxis. L’aspetto sorprendente ed interessante come sottolineato da Ferrari è che Platone effettua una ricodifica e un mutamento dal piano orfico-pitagorico di carattere misterico- iniziatico al piano filosofico. Il filosofo diviene l’unico individuo capace di essere immortale, ma la sua immortalità non deriva dall’eternità della sua anima, ma dall’espansione del proprio sé, cioè dalla piena realizzazione di ciò che di immortale possiede l’uomo, la ragione o Nous.
Questa ripresa del conglomerato, la ritroviamo in numerosi dialoghi platonici e anche nella Apologia di Socrate. Nel Carmide compare la figura di Zalmoxis, il medico-dio trace, il quale, secondo gli appartenenti alla sua setta, sarebbe capace di rendere immortali. Qui Socrate riprende questo motivo, trasferendolo sul piano filosofico e concependo gli “incantesimi” che dovrebbero condurre all’immortalità come logoi peri sophrosynes, ossia ragionamenti filosofici relativi alla saggezza e alla virtù[2]. Il dialogo in cui la presenza di motivi misterico-religiosi appare più consistente è probabilmente il Fedone, in cui viene inscenato il racconto delle ultime ore di Socrate prima di bere la cicuta. Gli interlocutori di Socrate sono due Pitagorici e l’argomento in discussione è l’immortalità dell’anima, tema che contribuisce a rafforzare il tono mistico dell’intero dialogo. Assistiamo dunque ad una trasposizione da parte di Platone del tema dell’immortalità, che abbandona il campo iniziatico religioso tipico del conglomerato ereditario, e si orienta verso un significato nuovo, prettamente filosofico. L’immortalità dell’uomo sarà garantita dal possesso della sophrosine, la virtù per eccellenza, attraverso il potenziamento di quella parte dell’anima che l’uomo ha in comune con la divinità: il nous o intelletto[3]. Successivamente Aristotele porterà a compimento questo processo di trasposizione avallando la tesi secondo la quale l’accesso dell’uomo all’immortalità è consentito dalla valorizzazione della componente intellettuale che c’è in lui, la parte divina. Aristotele ammette che la maggior parte delle attività dell’anima hanno una natura psicosomatica. C’è però un’accezione rappresentata dal noein: questo, afferma Aristotele in piena concordanza con Platone, “assomiglia molto ad un’affezione propria dell’anima”[4] ed è tale peculiarità del pensiero, la sua indipendenza dal corpo, che garantisce l’immaterialità e l’immortalità dell’anima umana. Aristotele però si ritrova di fronte ad una difficoltà: ammessa l’attività del pensiero attraverso l’immaginazione, la quale implica necessariamente la percezione e questa a sua volta il corpo, anche il pensiero risulterà essere inscindibile dal corpo. Nel De Memoria et reminiscientia, lo Stagirita conferma che non è possibile “pensare senza immagini” e pone la memoria in stretta relazione con l’immaginazione e la percezione. Bisognerà dunque supporre un pensiero o un’intelligenza dell’uomo che, essendo attività pura, sia strutturalmente indipendente dall’immaginazione e quindi possa fruire, esso solo, dell’immortalità[5].
Sappiamo che l’anima dispone di diverse facoltà che appartengono non in modo eguale agli esseri viventi. Le piante, ad esempio, dispongono della sola facoltà nutritiva, in quanto vivono ma non possiedono percezione. La facoltà sensitiva appartiene in modo indistinto a tutti gli animali, la quale è indispensabile per la loro sopravvivenza. Nell’uomo invece si trovano tutte le facoltà dell’anima, compresa quella razionale, di cui l’uomo è l’unico detentore. Aristotele stabilisce dapprima che l’immaginazione non si identifica con il pensiero in quanto essa dipende dalla volontà del soggetto e gode di un certo margine di arbitrio. Differentemente l’opinione (doxa), che è una sorta di apprensione intellettiva è necessariamente o vera o falsa. Pur non essendo l’immaginazione pensiero, è condizione necessaria del pensiero stesso, in quanto all’uomo è impossibile pensare senza la presenza di immagini. Il culmine delle funzioni cognitive dell’anima umana è rappresentato dal nous che viene definito da Aristotele come la facoltà dell’anima preposta al pensiero. Così come il senso è ricettivo delle forme sensibili, allo stesso modo l’intelletto o nous è ricettivo delle forme intelligibili. L’intelletto, differentemente dai sensi, non possiede un organo corporeo, ma è immateriale, ed è in potenza (e quindi non ancora in uno stato attuato) il luogo delle forme intelligibili. Il senso, infatti, ha conoscenza degli enti sensibili, e ne scopre qualità e forme mentre l’intelletto, che è immateriale, conosce di quegli enti le essenze o le loro forme intelligibili[6]. Tra l’intelletto e l’intelligibile l’elemento comune è dato dall’identità potenziale derivante da una affinità tra i due elementi. L’intelletto attua un’autocoscienza in quanto conoscendo gli intelligibili in atto, ovvero le essenze degli enti, si identifica con essi. Essendo tali intelligibili oggetti privi di materia, l’intelletto nel momento in cui li coglie, non si mescola all’ente materiale. Questo tipo di intelletto viene chiamato da Aristotele “intelletto conoscitivo” cioè dell’intelletto in potenza che diventa “intelletto in atto” quando conosce gli intelligibili in atto. Così come per quanto concerne gli enti fisici esiste una materia che è in potenza quell’ente che dovrà diventare, allo stesso modo c’è un intelletto in potenza che diventa intelletto in atto[7].
[1] Dodds, E. R., Vacca De Bosis, V. (2009). I greci e l’irrazionale. op. cit. p. 75. [2]Ferrari, F. (2019). La via dell’immortalità: Percorsi Platonici. Italia: Rosenberg & Sellier. pp. 15-24. [3] Ibidem. [4] Bos, G. (Ed.). (1994). Aristotele’s” De anima” (Vol. 6). Brill. p. 43. [5] Runggaldier, E. (2005). L’anima aristotelica e il funzionalismo contemporaneo. L’anima aristotelica e il funzionalismo contemporaneo, 1000-1020. [6] Giusti R., La dottrina aristotelica dell’intelletto. Una rilettura. pp. 140-143. [7] De Falco in Temistio, Parafrasi dei libri di Aristotele sull’anima, Padova, Cedam. 1965, p. 156).
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