Nel trattare il rapporto tra la gioia e la tristezza Baruch Spinoza (1632-1677) svolge una critica puntuale, come solo lui potrebbe fare, di una concezione della prima come assenza della seconda. Nella storia del pensiero Epicuro (341-270 a. C.) fu il primo a ritenere che la gioia non esista in sé, ma esista solo quando il dolore, proprio della condizione umana, viene meno. Per l’epicureismo il fine dell’esistenza è il raggiungimento della felicità, che, però, consiste nella privazione del dolore fisico (detto aponìa) e del dolore morale (detto ataraxìa): questa privazione del dolore fisico costituisce il piacere catastemàtico, che è fondato sull’equilibrio e la stabilità interiore, a differenza del piacere cinetico, cioè in movimento, che è turbato dai desideri e non può mai appagarsi. Il nesso che Spinoza pone tra gioia ed amore, per cui quest’ultimo non è altro che una gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna, e tra tristezza e odio, per cui quest’ultimo non è nient’altro che una tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna (cf. Etica, III, Proposizione XIII, Scolio, in Spinoza, Opere, I Meridiani Mondadori, 2007, p. 911) fa intendere come la concezione epicurea di un nesso tra le due passioni (una, la gioia, è la mera privazione dell’altra, la tristezza) si riverberi sul rapporto tra odio e amore, laddove il secondo (l’amore) sia il risultato del venire meno del primo (l’odio). Spinoza non esita così ad affrontare lo strano fenomeno per cui l’odio si trasforma in amore. “L’Odio che viene interamente vinto dall’Amore, si trasforma in Amore; e per tale motivo l’Amore è più grande che se l’Odio non l’avesse preceduto” (Etica, III, Proposizione XLIV, in Spinoza, Etica, Torino, UTET, 2019, p. 214). Infatti, quando si incomincia ad amare una cosa che prima si odiava, si finisce per amarla più intensamente di quanto la si sarebbe amata senza quell’odio, perché lo sforzo di allontanare la tristezza che procurava la cosa odiata, ora amata, è molto aiutato, perché è accompagnato come causa, dall’idea di ciò che si aveva in odio (Etica, III, cit., p. 215). Con questo, però, osserva Spinoza – con il suo solito acume – non bisogna pensare che, per amare più intensamente, bisogna prima odiare, e quindi che, per essere felici, bisogna (prima) essere tristi, sulla scia della dottrina epicurea dell’aponìa. “…Nessuno desidererà subire un danno per la speranza del risarcimento, né desidererà ammalarsi per la speranza della convalescenza” (Etica, III, cit., p. 215) e, smascherando la suggestiva tesi epicurea a livello del rapporto odio/amore, dimostrando l’assurdità (sulla base del principio per cui una sostanza non può essere prodotta da un’altra sostanza (Etica, I, Proposizione VI, cit., p. 74) di una derivazione del secondo dal primo: Che se, al contrario, si potesse concepire che un uomo possa desiderare di avere qualcuno in odio per poi amarlo con un amore più grande, allora desidererà sempre averlo in odio… il che è assurdo” (Etica, III, cit., p. 215).
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