La formula di Spinoza “non sappiamo di che cosa sia capace il corpo” è quasi un grido di battaglia! Così esordisce Gilles Deleuze nel capitolo sedicesimo del suo saggio Spinoza et le problème de l’expression (1968, tr. it. Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata, 1999). Se ci si pone nella prospettiva del corpo come principio passivo su cui l’anima agisce non si ha alcuna possibilità – dice Spinoza – di confrontare la potenza del corpo con la potenza della mente e quindi non si ha neppure la possibilità di valutarle l’una rispetto all’altra. Per Spinoza, invece, “l’ordine delle azioni e delle passioni del nostro corpo è simultaneo per natura con l’ordine delle azioni e delle passioni della mente” (Ethica, III, proposizione 2, scolio). Questo principio del parallelismo è fondamentale nel pensiero spinoziano perché esclude ogni tipo di eminenza della mente, ogni tipo di finalità spirituale o morale, ogni trascendenza di un Dio che regoli una serie in funzione dell’altra. Tutto quello di cui un corpo è capace (la sua potenza), corrisponde al suo “diritto naturale”. Sia la mente che il corpo ricercano quel che è per loro utile o buono. Questa legge di natura non è, quindi, riferita ad una perfezione finale, ma alla cupiditas primordiale, alla forza dell’appetito; disgiunta dall’ordine dei fini, viene dedotta dall’appetito come causa efficiente. Da questo punto di vista, per Spinoza, la ragione non gode di alcun privilegio; il saggio e l’ignorante si sforzano entrambi di perseverare nel loro essere. Nessuno nasce razionale. Può darsi che la ragione utilizzi o preservi le leggi di natura, ma non è in nessun caso il principio o il movente. Quel che è primo e incondizionato è quindi il potere o il diritto. La potenza non rimanda più ad un atto che la determini o la realizzi in funzione dell’ordine dei fini, è essa stessa in atto, poiché le affezioni che si provano in qualsiasi momento la determinano e la colmano di diritto, quale che siano queste affezioni. Ne consegue che, nello stato di natura ognuno, che sia sapiente o ignorante, giudica che cos’è buono o cattivo, che cos’è necessario alla sua conservazione. Ma nello stato di natura la mia vita è soggetta anche alla casualità degli incontri. Non ho quindi la possibilità certa di incontrare corpi che si compongono direttamente con il mio. Per questo mi sforzo di unirmi a ciò che concorda con la mia natura, di comporre il mio rapporto con rapporti che si combinano con il mio. Lo sforzo, quindi, è quello di incontrare corpi in modo che l’incontro con loro corrisponda al rapporto che con loro si compone. Tale sforzo costituisce lo sforzo della ragione. In questo senso nello sforzo della ragione non vi è nulla di artificiale o di convenzionale, perché fondato sulla composizione naturale dei rapporti. Allora il compito etico consiste proprio in questo sforzo, consiste nel fare tutto quel che si può. È per questo che l’Etica spinoziana utilizza il corpo come modello, poiché il corpo estende la sua potenza fin dove è possibile. In un certo senso, ogni ente fa sempre tutto quel che può. “Quel che può” è la sua capacità di essere affetto, necessariamente e costantemente colmata dal rapporto che esso intrattiene con gli altri. Ma in un altro senso la nostra capacità di essere affetti può essere colmata in modo tale da allontanarci da tale rapporto e ridurre la nostra potenza di agire. In questo caso, viviamo separati “da quel che possiamo”. Il debole, pertanto, non è colui che non ha forza, ma colui che rimane separato dalla sua potenza di agire.
L’articolo è soggetto a Copyright© secondo la Legge 22.04.1941 n. 633 (Legge sulla protezione del diritto d’autore), per maggiori informazioni consultare Termini e condizioni.