Hybris e moschetto. L’insegnamento morale del Wallenstein schilleriano.

Il giorno 20 maggio del 1617 viene incoronato Re di Boemia Ferdinando II d’Asburgo e, da fervente cattolico, fa l’unica cosa che non deve fare in un regno a maggioranza protestante: sostenere con il pugno di ferro la Controriforma. Vuole, in sostanza, in contrasto con la Lettera di Maestà del 1609 strappata all’imperatore Rodolfo II dalla Dieta di Boemia, violare la libertà di culto della maggioranza della popolazione del suo regno. Non entrerò nei dettagli con i quali questi soprusi vengono attuati, posso dirvi che un anno dopo, il 23 maggio 1618, un nutrito gruppo di uomini armati e inferociti effettua un blitz nel castello di Praga, con la complicità del capitano della guardia. Guidati dal conte Thurn, non trovando l’imperatore Mattia d’Asburgo (che aveva deposto Rodolfo II), lanciano dalla finestra due consiglieri imperiali e un loro segretario: questo avvenimento passa alla storia come “defenestrazione di Praga”.

Questo è soprattutto l’antefatto di una guerra che causò, secondo le stime, almeno 8 milioni di morti in tutta Europa e che è conosciuta nella storia come “La guerra dei trent’anni”. Un secolo e mezzo dopo, più precisamente tra il 1798 ed il 1799, Johann Christoph Friedrich Schiller mette in scena una trilogia drammatica, la cui premiere viene diretta da Johann Wolfgang von Goethe, il cui protagonista è uno dei personaggi più importanti di quel conflitto: sto parlando di Albrecht von Wallenstein, generale del contingente mercenario più forte del conflitto e sostenitore (per interesse) della causa cattolica.

Il concetto di hybris deriva dal greco antico che viene tradotto con “insolenza” o, meglio ancora, “tracotanza” e delinea, nel teatro tragico, quell’atteggiamento per il quale il personaggio forza la mano al destino e agli dei, sopravvalutando la propria potenza e la propria fortuna, andando proprio contro al fato e all’ordine costituito.

Vi sono infatti due Albrecht von Wallenstein da tenere in considerazione. Il primo, il personaggio storico, del quale lo stesso Schiller ha parlato ampiamente nel suo testo “Storia della guerra dei Trent’anni” e che anche noi possiamo interpretare in base anche a quelli che sono i nostri sentimenti e la nostra cultura. Qui parliamo del Wallenstein che, presentatosi alla corte dell’imperatore Ferdinando II promette di creare un esercito armato di tutto punto e, di fronte all’obiezione “ma chi manterrà e sfamerà tutte queste persone?” risponderà in maniera cinica dicendo, e adesso parafraso: “ci penseranno gli abitanti dei luoghi in cui, di volta in volta, ci sposteremo”. Ergo: “prenderemo con le buone o con le cattive le risorse necessarie nei territori imperiali a tuo nome, e senza troppi scrupoli in quelli dei nostri nemici”.

Lui è un imprenditore ante litteram che investe molto denaro per creare un esercito mercenario e, con esso, ottenere sempre più prestigio e potere. Il tutto a scapito dell’imperatore e della popolazione tedesca.

C’è poi il Wallenstein della tragedia, l’uomo che appare un genio incompreso, il cui unico errore appunto è stato quello di peccare di tracotanza, anche se le conseguenze vengono ben esposte.

Nell’opera filosofica di Schiller uno dei temi centrali è quello della libertà. In Schiller, la libertà non è concepita come un semplice stato di assenza di vincoli, ma come una continua tensione tra due istinti fondamentali dell’uomo: l’istinto sensibile, legato al corpo e ai bisogni materiali, e l’istinto della forma, legato allo spirito e alla ragione. Attraverso l’esperienza e soprattutto l’educazione estetica, basata sulla kalokagathia antica, l’uomo può liberarsi dalle costrizioni della realtà e raggiungere uno stato di libertà ideale e di miglioramento anche morale.                     

Wallenstein è innanzitutto un uomo di potere politico. La sua figura incarna l’ambizione di chi cerca di concentrare nelle proprie mani un potere sempre maggiore. Egli è un condottiero capace, ma anche un uomo che sogna di diventare un sovrano germanico. Questa sua aspirazione lo porta a scontrarsi con l’imperatore e con gli altri potenti dell’epoca. Il potere di Wallenstein, infatti, si fonda in gran parte sul suo esercito, una forza militare temibile che gli garantisce un’autonomia notevole. Tuttavia, il potere militare è un’arma a doppio taglio: da un lato, gli conferisce un’immensa forza, ma dall’altro lo rende vulnerabile ai complotti e alle trame dei suoi nemici.

L’hybris di Wallenstein è la sua rovina: la tragedia ci insegna che l’umiltà è una virtù fondamentale, che ci impedisce di oltrepassare i limiti imposti dalla natura umana e dal nostro ruolo nella società.

Il potere assoluto corrompe in modo assoluto: Wallenstein, come detto, appare inizialmente un uomo leale e devoto, si trasforma in un tiranno a causa della sua sete di potere. Questa dell’opera, infatti, è una critica all’abuso del potere ma soprattutto un monito per coloro che sono chiamati a governare. Non a caso Schiller, in alcuni scritti filosofici precedenti, parla anche della Rivoluzione Francese, ma soprattutto del tradimento degli ideali rivoluzionari per opera di chi prima, con la violenza, elimina gli oppositori politici per instaurare un nuovo regime di terrore. Il tema del rapporto col potere, soprattutto dispotico, è stato già dal drammaturgo, vedasi ad esempio il Don Carlos.

L’insegnamento tratto da Schiller dal teatro antico e messo in scena è che, con l’educazione al bello e la conseguente acquisizione di “sophrosyne”, la saggezza moderata e ponderata, è possibile diventare personaggi capaci anche di plasmare la storia, in base alla propria volontà e coraggio. 

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