Con il passare del tempo si è creato un legame molto fecondo tra psicoanalisi e cinema, soprattutto a causa dell’esperienza filmica che può tranquillamente essere paragonata ad un lavoro onirico. Lo spettatore è colmo della sua presenza-assenza, all’interno del triangolo simbolo-oggetto-soggetto nel quale non sa bene quale posizione prendere, non capisce se sta guardando un film o se da quest’ultimo viene guardato. La simbolizzazione dei traumi inoltre e la loro ricomparsa compiono movimenti simili in entrambi i mondi.
Il legame tra onirico e cinema rimanda anche a Barthes (e al suo studio della fotografia, perché possiamo immaginare una pellicola come una sequenza di queste) e Deleuze: il primo con il concetto di punctum e il secondo con quello di immagine ottico-sonora. Il punctum, secondo Barthes, è quella parte di un immagine che “ti punge”, che ti tocca in una maniera singolare aprendo una “ferita”, rievocando un ricordo. Deleuze parla di immagine ottico-sonora, riferita in senso stretto al mondo cinematografico, quando ci troviamo di fronte ad una scena particolare di un film che ci evoca un’immagine-ricordo: un’immagine attuale rievoca un’immagine virtuale.
Un ricordo di un’immagine filmica quindi crea un movimento circolare che va dal presente (percezione e rappresentazione) al passato (legame tra rappresentazione e figurazione) per tornare al presente (ricomparsa del trauma). Ed è qui, nel rapporto bidirezionale tra soggetto ed immagine, che si crea il rapporto appunto tra rappresentazione e figurazione: la visione di una pellicola, un’apparente continuum fuori dal tempo viene spezzato inconsciamente dalla “registrazione” di immagini che apres-coup vanno a legarsi con un qualcosa di rimosso oppure ri-attivano un ricordo.
La peculiarità di Melancholia sta proprio nel fatto che si viene a creare un triangolo del dolore tra il regista, che sublima e tenta di portare alla catarsi il proprio vissuto, il dolore del personaggio interpretato da Kirsten Dunst, Justine, e il soggetto che sta guardando il film.
Già, Justine. Un’epopea al negativo che inizia apparentemente in maniera innocente: il ritardo al ricevimento causato dai problemi con la limousine. Seguono il brindisi amaro e cinico della madre, le discussioni con la sorella Claire, fino a raggiungere il parossismo emotivo quando, in un picco di Thanatos che la porta Justine ad odiare se stessa e i suoi legami sociali, decide con addosso ancora l’abito da sposa, di consumare un rapporto sessuale con il nuovo “servo” del suo capo, umiliandolo e oggettificandolo, prima di mandare all’aria tutto: matrimonio, lavoro e rapporti familiari. Il personaggio è chiaramente identificabile come melanconico, vive una sorta di morte interiore e caratterizzato da un continuo senso di auto-commiserazione e auto-colpevolizzazione. Anche l’atto sessuale appena citato non ha nulla a che vedere con la libido ma anzi, diventa un gesto distruttivo ed auto-distruttivo.
La sorella Claire, nella seconda parte del film, si vede crollare il mondo addosso, fisicamente e metaforicamente. Mentre ospita la sorella Justine, ormai preda della depressione e dell’apatia, vede da prima cedere l’ottimismo del marito: John infatti sosteneva le ipotesi scientifiche sul mancato impatto del pianeta Melancholia deridendo quasi i catastrofisti. Una volta scoperta l’imminente catastrofe, decide di suicidarsi di nascosto, abbandonando la moglie ed il figlio Leo al loro destino. Da qui in avanti assistiamo al crollo psicologico definitivo di Claire, manifestato da continui attacchi d’ansia e di panico e che trova una apparentemente bizzarra opposizione rispetto all’atteggiamento di Justine: la sua condizione psicologica infatti la faceva già sentire morta, l’impatto del pianeta Melancholia non avrebbe fatto altro che certificare la morte interiore.
Tirando le conclusioni è evidente come l’intreccio traumatico tra regista, personaggio e spettatore crei un moto psichico disturbante: la volontà di Lars Von Triers di rappresentare cinematograficamente i suoi sentimenti finisce per travolgere lo spettatore, rievocando questioni e traumi con l’intento di creare un circolo empatico. La paura del tradimento, dell’infelicità familiare, dello svolgere un lavoro “sanguisuga”, sono solo le mille sfaccettature con cui il regista decide di mettere lo spettatore di fronte all’amara verità che la famiglia perfetta, la vita perfetta, non esistano. Eppure decide di inserire il personaggio di Leo, l’innocente bambino che idealizza la zia Justine e che sembra sempre immune al dolore che lo circonda, una metafora di innocenza che, dal mio punto di vista, rappresenta quella che andrebbe sempre preservata per saperci fare con la vita.
L’articolo è soggetto a Copyright© secondo la Legge 22.04.1941 n. 633 (Legge sulla protezione del diritto d’autore), per maggiori informazioni consultare Termini e condizioni.