Proseguo nel recensire il bel saggio di Gilles Deleuze (1925-1995) Spinoza et le problème de l’expression (1968, tr. it. Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata, 1999) occupandomi del capitolo dedicato all’ assoluto. Si è visto nel precedente articolo che in Spinoza vi è univocità nella predicazione dell’essere di ogni ente e vi è solo una distinzione formale degli attributi. Ogni attributo, quindi, è in sé infinitamente perfetto e, nella sua perfezione infinita, non differisce da un altro attributo. Si comprende perché Spinoza dica, allora, che non c’è alcuna specie di ineguaglianza negli attributi. Essi appartengono a Dio in quanto ente assolutamente infinito. Il passaggio dall’infinitamente perfetto all’assolutamente infinto è fondamentale per capire la visione di Spinoza della Natura, ove non conta tanto la perfezione, ma la necessità delle sue leggi, espressione assoluta della sostanza infinita. Egli riprende il concetto di proprium della scolastica, cioè di quella qualità che, pur convenendo sempre a tutti e ciascun soggetto di una determinato specie, non attiene all’essenza di quella specie (per esempio la risibilitas, cioè la capacità dell’essere umano di ridere), per affermare che l’infinitamente perfetto è solo un proprium dell’ente. Tale proprietà – annota Deleuze – non ci fa conoscere nulla della natura dell’ente al quale appartiene, e non è sufficiente a dimostrare che questo ente non implichi contraddizione. Ecco, quindi, come l’infinito da avverbio che connota il perfetto diventa aggettivo connotato dall’avverbio che esprime l’assoluto: dall’infinitamente perfetto all’assolutamente infinito. Così: 1) tutte le forme dell’ente sono uguali e ugualmente perfette, non c’è ineguaglianza di perfezione tra gli attributi; 2) ogni forma è dunque illimitata, ogni attributo esprime un’essenza infinita; 3) tutte le forme appartengono ad una sola ed unica sostanza, tutti gli attributi si dicono, senza limitazione alcuna, di una sostanza assolutamente infinita. Secondo Deleuze per comprendere a fondo Spinoza occorre aggiungere, perciò, alla triade “attributo/essenza/sostanza” la triade “perfetto/infinito/assoluto”. “La prima si fondava su un argomento polemico: la distinzione reale non può essere numerica. E su di un argomento positivo: la distinzione reale è una distinzione formale fra attributi che si dicono di una sola ed unica sostanza. L’argomento polemico della seconda è: i propri non costituiscono una natura. L’argomento positivo: nella natura tutto è perfetto. Non c’è una “natura” a cui manchi qualcosa; tutte le forme dell’ente si affermano senza limitazione, e si attribuiscono quindi a qualcosa di assoluto, dal momento che l’assoluto nella sua natura è infinito sotto tutte le sue forme” (cit., pp. 61-62). Sembrano mere speculazioni astratte. In realtà, se si ponesse mente a come invece questa visione spinoziana smonti l’ansia della perfezione come espressione massima dell’essere, per riportare invece in primo piano, come suo carattere costitutivo, l’infinito, si avrebbe maggiore facilità a comprendere come l’azione umana vale, non per la sua incidenza storica, ma per il suo legarsi alla Natura quale espressione dell’infinitamente assoluto. Avremmo un mondo pacificato con il suo manifestarsi, se solo capissimo come siamo immersi nell’infinito dell’unica sostanza, e non artefici di sostanze finite.
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