Il filosofo Robert Misrahi (1926-2023) ha dedicato buona parte della sua ricerca accademica allo studio e all’attualizzazione del pensiero di Baruch Spinoza (1632-1677), presentandolo come vera guida all’esercizio di una libertà felice, per poi sviluppare una sua personale elaborazione che, preservando la visione eudemonistica spinoziana, mira a superarne la concezione determinista. Tutti i contributi dedicati da Misrahi a Spinoza nel corso di cinquant’anni (1947 al 1997) sono raccolti nel volume L’Être et la Joie. Perspectives synthétiques sur le spinozisme, Éditions Les Belles Lettres, 1997, mai tradotto in italiano, come molte opere, purtroppo, di questo pensatore che meriterebbe di essere meglio conosciuto e apprezzato nel nostro Paese. L’unica recente sua opera tradotta in italiano è La Felicità. Saggio sulla gioia, pubblicata per la prima volta in Francia nel 1994 (e con il titolo Le Bonheur. Essai sur la joie, poi riedito nel 2011 e finalmente apparso in Italia nel 2013 preso il meritorio editore romano Elliot, con una bella traduzione di Armido Rizzi. In questo agile saggio, di cui consiglio vivamente la lettura, Misrahi riesce a rendere in poche pagine la capacità del pensiero spinoziano di opporsi all’esistenzialismo angosciante come alla felicità differita del formalismo kantiano, per propugnare invece un’etica del desiderio, di cui non occorre liberarsi, ma che occorre invece liberare per conseguire la gioia, che è il vero “bene” cui tende ogni essere umano. Scrive Misrahi: “Soltanto il desiderio della gioia può motivare il lavoro della ragione (sia riflessiva che intuitiva) e la ragione stessa è liberatrice perché permette di accrescere l’autonomia dell’azione, cioè la “potenza” o “forza di esistere” (vis existendi). Mediante la conoscenza razionale dei suoi affetti, e la conoscenza razionale ed intuitiva della Natura (che è il tutto dell’Essere), l’ “uomo libero” accede quindi alla più alta felicità mediante l’esercizio stesso di questa saggezza che ha permesso la sua liberazione. La saggezza felice è allora accordo con se stessi (“soddisfazione di sé”) e accordo con il mondo ed il Tutto di cui il soggetto è parte integrante” (Misrahi, R., La Felicità, cit., p. 36). Invece di concepire il desiderio come qualcosa che ci renderebbe schiavi, Spinoza ribalta la prospettiva, indicando nell’ignoranza e nell’immaginazione le vere servitù e ponendo il desiderio come motore di un processo di liberazione che, mediante la conoscenza, restituisce l’intero contesto delle cause e delle ragioni di ogni passione e sostituisce la conoscenza incompleta (inadeguata) con la conoscenza completa (adeguata): la passione diventa azione perché l’affetto passivo diventa affetto attivo. Di fronte alla schizofrenia del nostro tempo che nelle idee – tra loro così antitetiche – di crisi e di benessere ama rappresentarsi, Spinoza ci suggerisce di riabilitare il nostro desiderio di felicità come luogo dove la ragione diventa fonte di libertà. La tradizione filosofica che, da Arthur Schopenhauer (1788-1860), passando per Martin Heidegger (1889-1976) arriva fino a Jean-Paul Sartre (1905-1980) (che pur fu maestro di Misrahi, che del suo pensiero salva solo l’istanza insopprimibile della libertà), vede nel desiderio solo mancanza – e quindi sofferenza quando è inappagato o noia quando viene soddisfatto – viene rovesciata in quella del desiderio come conatus non solo al perseverare nell’essere, ma all’accrescere dell’essere attraverso una ragione riflettente capace di autonomia.
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