Piero Martinetti (1872-1943) ha dedicato un saggio di finissima analisi della metafisica spinoziana dal titolo Modi primitivi e derivati, finiti e infiniti, in Rivista di filosofia, XVIII (1927), 248-261, ora pubblicato nel volume La religione di Spinoza, a cura di Amedeo Vigorelli, Mimesis, Milano-Udine, 2022, 94-114. In questo saggio Martinetti affronta il tema delicatissimo della possibilità di fondare soggetti distinti dall’unica sostanza infinita che non siano a loro volta sostanze. Per Baruch Spinoza (1632-1677), Dio è un essere assolutamente infinito che in infinite maniere esprime la sua inesauribile essenza, non un’unità astratta e vuota che assorba in sé e annulli tutte le distinzioni degli esseri. Dio, unica sostanza infinita, si rivela a noi nei suoi attributi: l’estensione e il pensiero. Gli attributi, a loro volta, si determinano nei modi. Modo dell’estensione sono i corpi; modo del pensiero sono le idee. Per salvare, però, l’autonomia irriducibile dei modi Martinetti acutamente nota che essi non sono frutto di una deduzione, ma di una costruzione. Secondo Spinoza – spiega Martinetti – il passaggio dall’universale al particolare avviene per una crescente complicazione, per la combinazione di un certo numero di essenze prime, che sono come gli elementi generatori universali, pur restando in sé sempre eminentemente individuali. La finitezza dei modi non li allontana dalla volontà d’essere immanente alla realtà eterna di Dio, ma questa si afferma anche attraverso l’oscuramente empirico. L’uomo nell’esistenza finita non ha coscienza della sua reale essenza, alla quale può essere condotto dalla virtù. Il bene e il male, quindi, non esistono in sé, ma sono altro che la gioia e il dolore che riflettono nella nostra coscienza l’avvicinarsi alla nostra essenza reale o l’allontanarsi dalla stessa. È soltanto con l’immaginazione che l’uomo pone il bene e il male in sé stesso e nelle cose. La realtà vera, quella appresa dall’intelletto, è necessariamente perfetta e non può essere né bella né brutta, né buona né cattiva, né ordinata né confusa. Tutte queste qualità non sono altro che creazioni dell’immaginazione. Le essenze sono in sé come debbono necessariamente essere e i predicati apprezzativi di cui le rivestiamo esprimono solo il rapporto dell’essere nostro con le cose nell’inadeguata rappresentazione che noi ci facciamo delle cose e di noi stessi. Quindi realtà e perfezione sono la stessa cosa se prescindiamo dalla durata delle cose, ma guardiamo solo alla loro essenza: “Per perfectionem in genere realitatem intelligam: hoc est rei cuiuscumque essentiam, quatenus certo modo existit et operatur, nulla ipsius durationis habita ratione” (= Intenderò per perfezione in genere la realtà, cioè l’essenza di qualsivoglia cosa in quanto esiste e agisce in un certo modo, senza tener conto alcuno della sua durata) (Ethica II, def. 6). Per Spinoza non ha senso un Dio che premia il bene e punisce il male, perché Dio è la realtà eterna e come tale non può rapportarsi al male, né ha senso definirlo buono al di fuori della sua essenza perfetta.
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