La produzione platonica, a distanza di molti secoli, non smette mai di sorprendere e di dare spunti di riflessione. Un’opera che ha certamente fatto discutere gli addetti ai lavori è il Menesseno, un dialogo peculiare in quanto privo di un’apparente dissertazione filosofica. E.R. Dodds nella sua opera “Plato: Gorgias, a revised text with introduction and commentary” ipotizza possa essere stato pensato e composto come appendice appunto del Gorgia.
Riassumendo brevemente il contenuto, Socrate incontra il giovane Menesseno di ritorno dal Bouleuterion. Lì è stato deciso quale oratore avrebbe pronunciato il discorso in onore dei caduti di guerra (epitaphios logos) durante una celebrazione pubblica (patrios nomos).
Socrate, ironicamente, afferma che i funerali di Stato sono una buona cosa: queste cerimonie pubbliche, infatti, permettono anche alle persone non meritevoli (soprattutto dei ceti più bassi) di avere una cerimonia in pompa magna, con discorsi commoventi e ricchi di elogi. Le cerimonie pubbliche, possiamo comprendere dalle parole del filosofo, avevano una sorta di funzione propagandistica nei confronti degli stranieri. Avvenivano solitamente in teatro ed erano accompagnate da un sottofondo musicale.
Menesseno vede nelle sue parole la stessa ironia che sfoggia sempre di fronte ai retori, e quindi lo sfida, se riesce, a dargli un epitaffio migliore di quello che scriverebbe un oratore professionista.
Socrate decide allora di proporre al giovane un discorso che dice essere stato scritto da Aspasia, compagna di Pericle e stimata amica di Socrate e Platone. Il dialogo è un omaggio alla storia, resa in maniera gloriosa, di Atene e degli Ateniesi dagli albori mitici fino agli accadimenti più recenti.
In primis, riguardo al dialogo, si nota come la presenza dell’ironia e delle iperboli all’interno dei dialoghi platonici non facciano sponda ad una “pars destruens” del personaggio con cui Socrate dovrebbe confrontarsi. Il personaggio di Menesseno, sebbene intervenga poco prima della recita integrale del discorso, è ben caratterizzato e mostra la grossa curiosità ateniese verso questi accadimenti con fiducia e senza critica.
È il paradigma del cittadino che è destinatario quasi passivo del discorso in oggetto. La critica al gesto (l’estasi provata dal discorso, secondo Socrate, dovrebbe portare gli uditori a sentirsi come bambini o danzare nudi) è molto coerente con il pensiero platonico, specie riguardo la sua avversione ai regimi democratici.
La parte paradossale consta nell’ambiguità del comportamento di Socrate: nonostante la critica alla pratica del patrios nomos e dell’epitaphios logos, si lascia andare e recita un discorso molto concitato e deciso.
Il ricordo delle belle azioni è soprattutto in funzione dei vivi: in primis, perché potenzialmente devono prendere il loro posto sul campo di battaglia, ma anche per consolare la parte anziana della famiglia, che non può “vendicarli”. C’è anche una cosa che viene data per scontata: il fatto di essere agathos, il fatto di essere portatori di buone qualità, che cozza con l’opinione socratica. Gli ateniesi sono descritti come buoni per predisposizione “genetica”, con una narrazione ereditata da quella postuma alle guerre persiane.
I riferimenti storici terminano con la guerra di Corinto (386 a.C.), ma il discorso non è un epitaffio dedicato a questi morti specifici, bensì dedicato ai morti delle guerre del V secolo. Ad uscirne lodata e celebrata è “l’ateniesità”, non quindi i suoi caduti. Il tema principale, quindi, è di tipo etico, l’essere “agathoi”, e un po’ meno quello dell’Atene che difende la libertà degli altri. Politicamente ne esce lodata una Atene distorta, esagerata, con tratti molto distanti dalla democrazia radicale di Pericle e del suo circolo.
“L’individuo, che si trova in una massa, si sente sostenuto da tutti gli altri e non ha più paura di esprimere le sue emozioni più primitive e aggressive. È per questo che nella massa si possono vedere comportamenti che sarebbero impensabili per l’individuo isolato. Si può dire che l’individuo, nella massa, è come un lupo che ulula con gli altri lupi. È un’espressione della sua identificazione con il gruppo, e del suo bisogno di sentirsi accettato e sicuro“. Questa citazione tratta da Psicologia delle masse e analisi dell’Io è stata, di primo acchito, la correlazione colta con l’estasi procurata alla platea auditrice dell’epitaphios logos: in queste circostanze è facile piegarsi al pensiero della massa, (nel testo è utilizzato il termine dispregiativo plethos) mettendo sui piatti della bilancia soggettivazione e appartenenza. Fuori dal branco si rischia la morte, a ululare con i lupi, dentro il branco, si rischia la morte del Sé (anche fisica).
La polis non è solo Patria, è un qualcosa che è immanente e trascendente al cittadino: le disparità sociali svaniscono, non esistono né aristocratici né poveri né schiavi.
Nelle parole di Freud, l’adesione al funzionamento mentale di massa è legata al bisogno di sicurezza. E la fonte più efficace di sicurezza è l’appartenenza di ogni individuo a un gruppo pieno di certezze, senza rifiuti. Gli individui sono motivati ad adattarsi, a conformarsi, a condividere tutto pur di appartenere. Sebbene questa tendenza sia riconosciuta come naturale, è anche un rischio, che in questo caso consiste nell’esaltazione per la guerra e alimentando la sete di vendetta per opera della demagogia. Si tratta di conformarsi al gruppo e di un’imitazione che impedisce la soggettivazione e può portare a ogni genere di cose.
Pur in una città divorata dalla corruzione e dalle lotte intestine fra democratici ed aristocratici, l’elemento unificante e galvanizzante è la scelta tra gloria (Atene inizia la Guerra del Peloponneso all’apice del suo imperialismo che tuttavia stava dando segnali di indebolimento) e la morte. Ma è proprio ululando coi lupi, fino alla fine, che la testardaggine della guerra a tutti i costi porterà la polis al declino.
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