Un viaggio “cosmico” tra etica e scienza, da Anassimandro alla fisica moderna. Prima parte: l’antichità

Fin dagli albori della Ragione, e quasi certamente anche prima di questa, l’uomo ha mosso i primi passi spinto dal θαυμάζειν (thaumazein), ovvero dallo sbigottimento riguardo a ciò che lo circondava. E se pure noi oggi, di fronte alle meraviglie di un cielo stellato troppo spesso offuscato dalle luci delle città moderne, restiamo estasiati e spaventati, provate ad immaginare le difficoltà di chi abbia assistito a questo spettacolo senza alcuna conoscenza scientifica. C’è da sempre un filo, oggi per lo più fine e molto teso, tra l’ἦθος (ethos) di noi umani ed il Cielo, il Cosmo. Un tempo era “semplicemente” la sede degli Dei, oggi invece sappiamo essere abitato da cose maestose e terribili come supergiganti rosse e buchi neri dalle proporzioni inimmaginabili se paragonate al nostro “piccolo” Sole, oppure pianeti in cui per una peculiare combinazione tra elementi, pressione e temperatura, “piovono” letteralmente diamanti. Che il Cosmo abbia influenzato il nostro “vivere” lo dicono i miti, le religioni ed ancora oggi (a chi ci crede) gli oroscopi. 

Non deve infatti sorprendere, al di là della mitologia e della cosmogonia, come la ricerca di senso abbia coinvolto tutto il κόσμος (kósmos), che si supponeva ordinato e razionale, come presupposto dell’essente. Il filosofo Anassimandro cercò un passaggio dal suo ἀπείρων (apeiron) all’ordine, così come si cercava di farlo all’interno delle poleis greche: siamo nella fase dell’arcaismo in cui iniziano i fenomeni del colonialismo ma soprattutto delle creazioni di leggi scritte ad opera dei “mediatori”. Essi cercavano un compromesso tra gli aristocratici, detentori delle conoscenze giuridiche tramandate oralmente (e di ispirazione divina), e il “ceto oplitico”, che esigeva più diritti sociali e politici. I tempi stavano cambiando, e di riflesso stavano diventando troppo complessi per basarsi solo su miti e leggende. Nella nuova società che vedeva una rinascita ed un potenziamento degli scambi rispetto al “medioevo ellenico” o del periodo minoico/miceneo, occorreva trovare una archè anche all’interno delle poleis. E se le poleis ora avevano delle Leggi basate sulla “giustizia”, perché questo non poteva applicarsi anche al cosmo? Così nasce l’idea di questo infinito imperituro a garanzia di un hic et nunc mutevole ed effimero. Il passaggio dall’ἀπείρων al “nostro mondo” avviene per separazione dei contrari che tendono a sopraffarsi l’un l’altro, così come fanno gli uomini fra loro. Pertanto, l’atto di nascita stesso diventa un’ingiustizia nei confronti dell’ἀπείρων, una sorta di “peccato originale” preso in prestito dal mito di Dioniso e dall’Orfismo. Questo equilibrio verrà ristabilito con la morte, che eternamente si alterna alla vita in un ciclo continuo.

Con Parmenide invece l’essente, il Tutto, diventa ingenerato, incorruttibile, omogeneo, immobile, atemporale, indivisibile, finito. Non c’è più spazio per il divenire, poiché illusorio. L’ἀλήθεια (aletheia) è un qualcosa di granitico che Heidegger interpreta con “non-nascosto” o “non dimenticato”. Sempre con Parmenide i concetti di εἶναι (einai) e νοεῖν (noein) diventano una cosa sola, un cogito ergo sum ante litteram. È con il miglior “allievo” parmenideo (il virgolettato è d’obbligo), Platone, che viene plasmato una nuova etica. Si prende a piene mani anche dall’Orfismo e dal Pitagorismo per andare a parlare direttamente dell’essere umano: occorre fuggire dal male mediante virtù e conoscenza, lasciandosi ispirare dal Bene. Il Bene viene paragonato al Sole: come il Sole è causa sia del vedere sia della visibilità di ciò che il vedere vede, il Bene è causa del pensiero e della pensabilità dei suoi oggetti. Nel mito di Er (l’escatologia greca lo prevedeva già) l’oltretomba nel quale si viene giudicati è sottoterra, mentre le Idee, ovvero ciò che vi è di più divino e al quale tutti dobbiamo tendere, vengono poste in Cielo. Anzi, oltre ad esso: nell’Iperuranio (da Οὐρανός – Uranos, “cielo stellato”, “firmamento”). La conoscenza dell’idea del Bene guida la prassi etico-politica e garantisce la desiderabilità della conoscenza. Al contempo, l’Amore è ciò che ci fa tendere a questa dimensione metafisica. 

Aristotele credeva che la cosmologia e l’etica fossero strettamente collegate: la cosmologia è lo studio dell’universo e dell’ordine naturale delle cose, mentre l’etica è lo studio del bene, del male e del modo in cui gli esseri umani dovrebbero vivere le loro vite. Aristotele sosteneva che l’etica era fondata sulla cosmologia, perché la natura umana è parte della Natura e quindi soggetta alle stesse leggi. Identificava quattro virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la temperanza e il coraggio. La prudenza è la capacità di prendere le decisioni giuste, la giustizia è la capacità di trattare gli altri in modo giusto, la temperanza è la capacità di controllare i propri desideri, infine il coraggio è la capacità di affrontare le difficoltà evitando a un tempo la viltà, cioè l’eccesso di paura, e la temerarietà, ovvero il difetto di paura. Secondo Aristotele, le virtù erano state create dalla natura per permettere agli esseri umani di vivere in armonia con essa medesima e con gli altri: quando viviamo secondo la virtù, siamo in grado di raggiungere la felicità, che è l’obiettivo della vita umana. Il rapporto tra cosmologia ed etica in Aristotele è quindi molto stretto: la cosmologia fornisce una base per l’etica, perché ci aiuta a capire la natura umana e la sua relazione con l’ordine naturale delle cose, e l’etica, a sua volta, ci aiuta a vivere in modo coerente con la natura e a raggiungere la felicità, che è l’obiettivo della vita umana.

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