Vorrei tornare sul tema dell’Amore, per mettere in luce la modernità della concezione che ne ha Baruch Spinoza (1632-1677) anche rispetto al dibattito attuale sul suo essere unico elemento fondante di un nucleo famigliare, oltre e, a volte, nonostante il legame biologico che si vorrebbe, invece, ne fosse l’unico legittimante. Come ricorderete, Spinoza definisce l’Amore come una “gioia associata all’idea di una causa esterna” (cf. Etica, III, Definizione degli affetti, VI, in Spinoza, Opere, I Meridiani Mondadori, 2007, p. 958). Questa concezione, all’apparenza così generica, mette in risalto due elementi che attengono all’essenza dell’Amore e fa chiarezza su altri elementi che, a torto, sono ritenuti essenziali per farne esperienza. In primo luogo, l’Amore è una gioia. Non attiene quindi alla sua essenza la sofferenza o la tristezza. La gioia, per Spinoza, è “la passione per la quale la mente passa ad una perfezione maggiore” (cf. Etica, III, Proposizione XI, Scolio, cit., p. 908), per cui nemmeno attiene all’essenza dell’Amore la rinuncia a stare bene, a perfezionare il nostro essere. Il sacrificio, la rinuncia, possono essere modalità per amare, ma non sono costitutivi dell’Amore se non portano gioia. In secondo luogo, l’Amore è sempre associato all’idea della causa da cui si genera, non è mai cieco, perché è comunque un atto della mente, in quanto cosciente della sua componente desiderante. Ma soprattutto Spinoza liquida, con il suo solito stile asciutto, ma acuto, secoli di speculazione filosofica che ha sempre considerato l’Amore “una volontà dell’amante di congiungersi con la cosa amata”, affermando che questa definizione non esprime l’essenza dell’Amore “ma una sua proprietà”. L’Amore non è quindi la volontà irresistibile di unirsi alla cosa amata, perché questa può certamente esserci, ma come una sua proprietà, cioè un qualcosa che gli si addice, ma non come qualcosa che lo costituisce. Spinoza si preoccupa così di spiegare questa sfumatura che, però, è essenziale nel suo pensiero, perché libera la relazione amorosa dal possesso come requisito del suo statuto ontologico. “Si deve tuttavia osservare che, quando dico che nell’amante c’è la proprietà di unirsi con la volontà alla cosa amata, per volontà non intendo il consenso o una deliberazione dell’animo (…) e nemmeno la cupidità di unirsi alla cosa amata quando manca o di perseverare nella sua presenza quando è presente; l’Amore, infatti, può essere concepito senza questa o quella cupidità. Per volontà intendo invece l’acquietamento che si dà nell’amante per la presenza della cosa amata, acquietamento dal quale la gioia dell’amante è rafforzata o, almeno, alimentata” (cf. Etica, III, Definizione VI, Spiegazione, cit., p. 958), Si noti come questa visione dell’Amore, sottraendo dalla sua essenza ogni idea di unione blocchi, fin da suo nascere, qualsiasi sua declinazione in termini di possesso o di dominio, e quindi di esercizio di potere dell’amante sull’amato, riservando invece alla vera essenza dell’Amore la capacità di gioire del primo per la semplice presenza del secondo.
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