L’esistenzialismo abbraccia più di una corrente filosofica. Il punto comune è incentrato sull’analisi della situazione esistenziale e la condizione dell’uomo nella modernità.
Certamente non una visione positiva: l’uomo è un essere finito e succube della morte, che inesorabilmente lo prenderà, che si voglia accettare o meno. E se da una parte le fondamenta di tal pensiero sono davvero cruente e crudeli, il compito dei filosofi ora è: spiegarlo all’umanità, assumendo le responsabilità di questa società “condannata” al male, che ne è il riflesso (specialmente durante il secondo dopoguerra). Una situazione reale, vissuta solo nella sua tragicità.
I filosofi a partire Søren Kierkegaard (considerato il padre dell’esistenzialismo), passando per Camus, Sartre e Dostoevskij e molti altri… rivelano che ciascun uomo sarà il pensatore di se stesso, dando valore all’individualità di ciascuno. Singolarità, possibilità, scelta e angoscia.
L’esistenza è il modo che possiede l’uomo per essere coinvolto con il pensiero e l’oggetto del pensiero.
L’esistenzialismo prende forma anche in diversi romanzi che narrano situazioni umane tristi, sofferenti, incerte di malcontento dove il tormento domina come condizione di sottomissione alla mera esistenza, volta alla morte dell’uomo. Anche gli altri esseri viventi sono soggetti alla condizione esistenziale che avrà come significato “il nulla”, ma l’uomo è l’unico essere che è cosciente di tal condanna.
Sartre nella sua opera “La Nausea” rappresenta una assurda esistenza e con essa la coscienza, che è l’unica cosa a far valere la vita. La coscienza dà senso alla vita nella bellezza dell’arte, quindi solo gli artisti possono trarre un senso dalla vita. Altri filosofi moderni come Satta (1977) che descrive personaggi semplici ed altéri, sostiene che tutti siamo accomunati dalla condanna della morte. La morte incide moltissimo sul pensiero di Satta: il senso di scrivere (che è un’arte) è liberarsi dal ricordo dei morti e la liberazione della colpa di essere stati vivi.
Si arriva al paradossale: colpa di essere stati vivi?
Kierkegaard, nel suo dualismo nel quale vi è una lotta interiore tra senso di colpa e dolore in termini religiosi chiede “la mia vita è purtroppo fatta al congiuntivo: fa’ o mio Dio ch’io abbia una forza indicativa!”
E difatti la sfera religiosa era ritenuta la più Alta da Kierkegaard laddove l’umano riesce ad avere il proprio intimo rapporto con Dio… unico modo per perseguire e raggiungere target elevati. Lui stesso condusse una vita in equilibrio tra Estetica (che rappresenta l’arte che dà alla coscienza il dono di un senso all’esistenza all’uomo) ed Etica religiosa.
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Esistere credo sia la condizione necessaria per saper vivere.
Ancora una volta riflessione azzeccata!