La modernità dell’analisi che Baruch Spinoza (1632-1677) dedica alle passioni emerge con un particolare risalto quando si tratta di descrivere le ragioni della contemporanea presenza nell’animo umano di passioni tra loro contrastanti, un fenomeno che non cessa di stupire soprattutto quando si tratta di passioni radicalmente tra loro contrarie, come sono l’odio e l’amore. Ciò avviene nell’analisi che egli conduce su una delle passioni più forti ed antiche che muovono gli esseri umani, capace di essere ispiratrice di testi immemorabili della letteratura e del teatro: la gelosia. Spinoza ne parla in questi termini “Se uno immagina che la cosa amata congiunga a sé con un vincolo di amicizia pari o più forte di quello con il quale egli stesso la possedeva da solo, odierà la stessa cosa amata e invidierà l’altro” (Etica, III, Proposizione, XXXV, in Spinoza, Opere, I Meridiani Mondadori, 2007, p. 929). Odiare la cosa amata. Ma come è possibile? Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior: così già si esprimeva in un celeberrimo verso Catullo (87-54 a.C.) “Odio e amo. Me ne chiedi la ragione? Non so, così accade e mi tormento” (in Catullo, Le poesie, I grandi libri Garzanti, Milano, 1991, p. 229). Spinoza, come fosse un chirurgo dei sentimenti, spiega con la consueta fredda lucidità come questo accada. La pulsione dell’amante a tener legato a sé la cosa amata viene fomentata se egli immagina che un altro desideri per sé la stessa cosa. Questa pulsione, però, viene ostacolata dall’immagine della stessa cosa amata associata all’immagine di questo altro che si congiunge a lei. Da qui il considerare la cosa amata, inaspettatamente, come causa di tristezza, la quale fa nascere un odio verso di lei. “Questo odio verso la cosa amata, (…), si chiama gelosia che, perciò non è altro che una fluttuazione dell’animo nata simultaneamente da amore e da odio (…). Inoltre, quest’odio verso la cosa amata sarà maggiore in ragione della gioia dalla quale il geloso soleva essere affetto a causa dell’amore con il quale la cosa amata lo ricambiava (…) e perché immagina che essa procuri gioia a colui che odia” (Etica, III, Proposizione, XXXV, Scolio, cit., p. 929). Spinoza ci fa comprendere la dinamica con cui l’amante, associando la cosa amata all’idea del rivale in amore, finisca per capovolgere il proprio amore in odio, ma senza che il primo scalzi il secondo. Ancora una volta il pensiero di Spinoza getta le basi, ben tre secoli prima, del pensiero psicanalitico. Si pensi a Sigmund Freud (1856-1939) che descrive la gelosia (che egli chiama competitiva) come “essenzialmente composta dall’afflizione, il dolore provocato dalla convinzione di aver perduto l’oggetto d’amore, e dalla ferita narcisistica, ammesso che questa possa essere distinta dal resto; infine, da sentimenti ostili verso il più fortunato rivale, e da una dose più o meno grande di autocritica che tende ad attribuire al proprio Io la responsabilità della perdita amorosa” (Freud, S., Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità, 1921).
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